Shluba

~ Casa ~

Correva a perdifiato nel bosco. Scappava da qualcosa di oscuro, malato e terribile, oppure era un qualcuno: non riusciva a distinguerlo. Si agitava, muoveva le gambe tozze e poi cominciava a incurvarsi fino ad invecchiare, finché l’oscurità non le fu addosso…

Shluba si svegliò madida di sudore. Si era agitata così tanto che aveva finito per tagliarsi le labbra coi denti appuntiti, di nuovo. Odiava il suo sangue rimgae, le chiazze violacee sulla pelle, i capelli verdi e ispidi, i denti appuntiti e le mani palmate. E odiava il suo sangue rhavan, umano, che la rendeva più brutta e vecchia di quanto non fosse. Un meticcio che nei tempi antichi avrebbero buttato giù da una rupe. Cercò di tirarsi su più volte, ma data la sua forma fisica e visto che aveva dormito per terra, in mezzo agli alberi, l’operazione fu più faticosa del previsto. Quando cercò di raddrizzarsi, la schiena ingobbita dagli anni protestò vivamente.

Recuperò le sue poche cose, scelse un ramo caduto come bastone provvisorio e s’incamminò verso le mura di Maccah. Quello era il terzo giorno che cercava lavoro in città, e quella era l’ottava città in cui aveva cercato lavoro negli ultimi due anni. Si era fermata qualche mese ad Aerlinn, la città del commercio dove tutti i meticci dal sangue misto trovano un posto da chiamare casa, ma non era andata. Troppa concorrenza, troppe domande. Alla capitale Ethuil non avrebbe mai osato mettere piede, figurarsi a Tharsis o nelle terre del mare. Quella non era casa sua, non più.
“Se non riesco qui, giuro su Nimue che mi trasferisco al nord, nelle foreste.”
I tauren erano troppo alti per notarla, di certo non l’avrebbero cacciata via. Si trattava pur sempre dei figli dei troll: chi erano loro per giudicare?

Era passato da poco il mezzogiorno, e lei stava andando di bottega in bottega ad offrirsi come erborista, che poi era l’unica cosa che sapeva fare. L’unica cosa utile che sua madre le avesse insegnato: tutto il resto erano storie, leggende e profezie assurde. Entrò con poca convinzione in una macelleria, e subito gli occhi di tutti furono su di lei. Lo immaginava, del resto Maccah era abituata solo ai rhavan, e non alle razze magiche. Nella Piana imperversavano ancora molta ignoranza e chiusura.
“Griff, vieni qui, presto”, la donna dietro al bancone si premurò di allontanare un piccolo bambino grassottello dalle grinfie della tremenda mezza rimgae.
Shluba sospirò: non sembrava andare meglio dei giorni precedenti.
“Che vuoi?”, fu un uomo alto e pieno di peli a rivolgersi a lei.
Il padre di Griff, immaginò. Non si fece intimidire dal grembiule sporco di sangue e dal coltellaccio che l’uomo aveva in mano, e fece due passi verso il bancone ripieno di carne.
“Buongiorno. Vorrei un polletto già spennato, e chiedere se conoscete qualcuno che potrebbe avere bisogno di un’erborista.”
Fece per tirare fuori i pochi soldi che possedeva, ma il tono del macellaio la scoraggiò.
“Intendi fermarti qui, nella nostra città?”
“Non credevo che fosse vietato trasferirsi”, rispose ironica. Rimise via i soldi.
“Per quelli come te c’è un solo posto, a Maccah”, ingiunse la donna, che stringeva a sé il piccolo Griff, “la Fanciulla di Ferro.
Il marito scoppiò in una brutta risata, e Shluba fece un passo indietro.
“Sì, un posto adatto a depravati e scherzi della natura come te”, asserì.
Shluba mostrò i denti a punta, e i due si irrigidirono. Il bambino si mise a piangere.
“Immagino dovrò recarmi lì, per mangiare. Grazie”, e se ne andò, prima che al macellaio venisse in mente di scagliarle un coltello tra le scapole.

Ci impiegò oltre un’ora per trovare quella schifosissima taverna, e quando finalmente se la trovò davanti, sembrava chiusa. Da fuori sentì l’odore del vino e del tabacco, forse anche di qualcosa arrosto. Lo stomaco prese a brontolarle. Posò la mano sul muro umido, e lentamente si lasciò cadere per terra. Sarebbe stata una senzatetto per tutta la vita, una mezza rimgae con tante conoscenze sulle erbe e le pozioni, ma nessuno a cui venderle. Era una fallita, era stanca, era vecchia. Era troppo vecchia.

“Va tutto bene?”
Una voce arrivò da in fondo al vicolo sporco. Quando Shluba sollevò lo sguardo, non credette al suo unico occhio. L’altro era cieco, e aveva smesso di contarci già da un po’. Una gimil, una vera gimil dei Colli Rossi stava camminando verso di lei. Era gigantesca, la pelle nera come la notte, i capelli una matassa di lana scura e…era bellissima.
“Io”, balbettò, mentre la sconosciuta avanzava verso di lei, “volevo solo pranzare”.
La donna fece un sorriso, e i suoi orecchini di pietre colorate tintinnarono.
“Se non ti importa di entrare in un posto dimenticato dagli dei, puoi mangiare alla mia locanda”, e indicò proprio la Fanciulla di Ferro.
Shluba fece un mezzo sorriso e si mise in piedi.
“I posti che gli dei hanno dimenticato sono i miei preferiti.”

Si chiamava Kokebi, ed era proprietaria della taverna da quando sua madre era morta parecchi anni prima. Shluba sapeva poco dei gimil: erano più grossi e alti di un umano, avevano la pelle spessa e scura per proteggersi dal sole ed erano capaci di una forza incredibile. Inoltre, la magia che ancora scorreva nelle loro vene – anche se non la praticavano – li manteneva giovani a lungo. Per questo non si stupì quando Kokebi le disse di avere circa sessant’anni.
“Tu, invece, devi essere su questa terra da molto più tempo di me”, aggiunse.
Riusciva ad avere un tono gentile anche quando le dava della vecchia. Shluba ingollò un altro cucchiaio di zuppa di piselli e si costrinse ad annuire.
“I rimgae vivono a lungo quanto voi gimil”, asserì, “di certo ho visto più cose di quante avrei voluto ricordarne, alla mia età”.
Kokebi sorrise, ma Shluba non era sicura che avesse davvero capito.
“Sai, anche io sono lontana dalle mie terre”, disse invece.
“I Colli Rossi?”, cercò di non fare una smorfia, ma non ci riuscì.
“Oh, non fare così! È una terra bellissima, quella delle Miniere di Sopra.”
Shluba fece spallucce: non c’era mai stata, quindi doveva basarsi solo sui racconti. E i racconti la descrivevano come una terra arida, rossa di ferro e altre pietre, battuta dal sole il più dei giorni e da tempeste devastanti di quando in quando.
“Perché non torni?”, le chiese.
Kokebi incurvò le spalle.
“Ci ho provato, quando mia madre è morta”, rispose, “a lei piaceva stare qui, e in realtà piace anche a me. Ma sentivo che mi mancava un pezzo delle mie origini”.
“Ti capisco”, mormorò la rimgae senza riflettere.
Però era vero: la capiva. E lei non sarebbe mai potuta tornare indietro, a Teti. Non l’avrebbero accolta bene, dopo che sua madre era scappata con un umano…
“Rimasi là qualche mese, ma non riuscii a adattarmi. Ero troppo umana per i gimil, ma sono anche troppo gimil per gli umani”, fece un sorriso triste.
“Capisco cosa vuoi dire. Lo stesso vale per me e la mia razza.”
Kokebi fece un’espressione buffa con le labbra scure, che la fece sorridere.

“E cosa ci fai qui a Maccah?”, chiese poi.
“Cerco lavoro e un alloggio”, rispose pronta la rimgae.
Kokebi la squadrò, ma senza arroganza o giudizio. Erano due estranee in una terra di estranei, e questo le rendeva simili, in qualche modo, compagne.
“Ti proporrei di lavorare qui, ma la paga è misera, il lavoro è troppo e io sono insopportabile”, rispose, facendola ridere.
“Ho fatto fuggire a gambe levate tutti i miei aiutanti, parola mia!”
Si mise una mano su un fianco, poi si sedette di fronte a lei. Shluba era talmente minuta, a causa del sangue misto e della vecchiaia, che a malapena arrivava al tavolo. Kokebi lo superava con addome, busto e spalle.
“Però…hai detto che sei brava con le erbe, giusto?”
Shluba annuì. “Ho studiato come erborista.”
“C’è questa vecchia bottega abbandonata, alle Terme”, ponderò Kokebi, “non è vicina alla città, e i corridoi termali sono forse troppo umidi per te, però…”.
“Sembra perfetta”, si affrettò a rispondere la rimgae.
Kokebi batté il palmo della mano sul tavolo, così forte che la zuppa di piselli finì fuori dal piatto.
“Allora è deciso”, trionfò, “più tardi ti accompagno a parlare con chi dirige la baracca: è un mio cliente fedele”.
Shluba sorrise, e sentì il sangue affluirle al viso.
“Grazie”, disse semplicemente, “farò del mio meglio per integrarmi”.
“Oh, non servirebbe”, Kokebi fece un gesto con la mano, come a dire che era tutto vano, “le persone di questa città hanno paura della loro stessa ombra. Ma vedrai, c’è bisogno di una come te, qui. I soldati si spaccano la schiena, le mogli vogliono mani più morbide e perfino ad Arthall c’è qualche raffreddore, di tanto in tanto!”.
Shluba rise di gusto, e per la prima volta dopo due anni di solitudine si sentì a casa.

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Sidhe

~ Madre ~

Rifiutò per l’ennesima volta la mano di Thegga, mentre trotterellava dietro di lei attraverso il mercato e fuori dalle mura. Maccah era affollata, sporca e afosa come sempre in quel periodo: stava arrivando la Sera d’Estate, anche se il clima era lontano dal caldo secco tipico della stagione. La Piana intera arrivava a Maccah in quel periodo, sia per la festa che per commerciare in frutta, verdura, spezie, bestiame. C’erano saggi dalla cittadella di Istir, enologi dalle Valli Ombrose, persino qualche venditore di arazzi e gioielli dal nord. Per Sidhe, sempre chiusa nel negozio di stoffe di Thegga, tutta quella folla era un vero evento.

“Dammi la mano, che gli elfi mi aiutino!”
Thegga le afferrò la mano con un gesto un po’ brutale, ma Sidhe si adeguò.
“Ho otto anni, posso camminare da sola.”
“Non credo proprio, signorina. Per di qua”, e la strattonò fuori dalle mura, verso le Terme.

Sidhe digrignò i denti e si lasciò guidare fuori dalla folla in fermento. Era il secondo anno che vedeva da vicino la festa della Sera d’Estate. Nelle Valli Ombrose, dove abitava prima, se n’era sempre parlato con ammirazione. Ma i suoi genitori non l’avevano mai voluta portare. Gli occhi le si riempirono di lacrime, ma riuscì ad inghiottirle prima che Thegga se ne accorgesse. Da quando quella donna l’aveva presa con sé, Sidhe si era tranquillizzata. Dormiva sempre con il coltello di suo padre sotto al cuscino, però piangeva anche molto più di prima. Thegga le aveva detto di farlo, che era normale per una bambina che aveva visto i genitori morire in un incidente. Quindi, quando era sola, Sidhe piangeva. E a volte lasciava che Thegga la scoprisse e la consolasse; ma non era quello il momento.

“Dobbiamo proprio?”, si lamentò, “preferirei allenarmi con la spada!”.
Cioè il bastone di un vecchio rastrello che aveva trovato nel giardino dietro al negozio. Thegga sospirò e la scrutò con gli occhi chiari. Aveva un viso buono.
“Tesoro, lo sai che quelle sono cose per ragazzi, per i soldati.”
La loro passeggiata finì inesorabilmente dentro alla struttura gigantesca delle Terme, attraverso mille corridoi e fino alla bottega di Shluba. Sidhe cambiò subito atteggiamento. Con Thegga si concedeva di essere solo una bambina di otto anni, lo faceva per tutto l’amore che aveva saputo darle e per come la curava. Ma con tutti gli altri – con il resto del mondo – era molto diversa.

Incrociò le braccia e raddrizzò la schiena, facendo il suo ingresso nella bottega con sguardo annoiato e scontroso.
“Ed ecco il tuo piccolo raggio di sole invernale”, le accolse Shluba.
Shluba era una vecchia pazza, mezza rimgae e mezza umana. Thegga le aveva raccontato che sua madre, una vera rimgae, si era innamorata di un uomo e lo aveva seguito nella Piana. A quanto pare, la poverina era morta per la lontananza dal mare. Del padre di Shluba, invece, non si sapeva nulla. Sidhe la sopportava solo perché era orfana come lei.
“Sei più brutta della settimana scorsa”, rispose imbronciata.
Sentì il dolore sulle natiche ancora prima di rendersi conto che Thegga la stava sculacciando.
“Ahi! Che c’è? È vero!”
Un altro sculaccione le cucì la bocca. Shluba stava ridendo, come al solito con una voce gracchiante e i denti appuntiti che sporgevano dalle labbra violacee.
“Come il sole d’inverno, fastidioso e con quella luce insopportabile”, decretò, “che posso fare per te, Thegga?”.
Le indicò il pancione, e Sidhe finse di non vedere.
Thegga era incinta da qualche mese, come fosse successo, Sidhe non lo sapeva.
“Ho bisogno di altra crema per la schiena”, rispose la donna, “alla sera tremo dal dolore”.
Shluba annuì e si mise subito al lavoro dietro al bancone.
“Domani manda pure a ritirare le stoffe nuove, quel blu di cui parlavamo le ha rese speciali”, gracchiò.
Poi guardò Sidhe.
“Potresti fartici dei bei pantaloni, sai bambina?”
“Non sono una bambina”, borbottò con tono troppo infantile.
Shluba rimestò qualcosa nel mortaio, poi si guardò intorno e imprecò.
“Devo recuperare qualcosa dal magazzino. Arrivo subito.”

Non appena la rimgae uscì dalla bottega, Thegga si sedette su uno scatolone con un sonoro sospiro.
“Ti senti bene?”, Sidhe subito corse da lei.
“Certo, tesoro”, rispose la donna massaggiandosi il pancione.
“Quella cosa non ti sta facendo bene”, si ritrovò a commentare la bambina.
Poi si morse un labbro. “Scusa, Thegga. Non volevo dire…”
“Sidhe, sai che nulla cambierà dopo che Darrli sarà nata, vero?”
La bambina aprì e chiuse la bocca più volte, confusa.
“Come sai che è una femmina?”
Thegga sorrise e un velo di sudore le imperlò la fronte.
“Due anni fa, chiesi agli dei di mandarmi una bimba”, mormorò.
“E ora aspetti…Darrli.”
Thegga sorrise e le prese la mano.
“No, dopo la mia preghiera trovai te.”
Sidhe sentì di nuovo le lacrime traditrici agli angoli degli occhi.
“Ora so che la mia bambina sarà una femmina, e vorrà diventare proprio come te.”
Sidhe si morse il labbro e guardò altrove.
“Nessuno vorrebbe diventare come me.”
Thegga si rialzò a fatica e inarcò la schiena, le mani posate sui fianchi.
“Sei una bambina coraggiosa. Sei sopravvissuta da sola a qualcosa di orribile, e tutti i giorni mi aiuti in negozio e riempi le mie giornate di gioia. Non mi sembrano cose inutili.”
Sidhe avrebbe tanto voluto chiederle perché non aveva un marito, o cosa le fosse successo, ma non ne aveva mai trovato il coraggio. Forse, non ci sarebbe mai riuscita.
“Ma io non sono normale.
Per gli dei, lo aveva detto ad alta voce! Si portò una mano alla bocca, poi si ricompose. Thegga si accigliò.
“Nessuno è veramente normale, tesoro. Ma puoi vivere una vita felice, sempre e comunque”, si portò una mano alla pancia e invitò Sidhe a fare lo stesso.
Avvertì un piccolo movimento, e si spaventò. Ma non ritrasse la mano.
“Puoi insegnare agli altri ad essere coraggiosi come te, a portare gioia come fai tu. A vivere tutti i giorni come meglio credono.”

Sidhe si sentì in colpa. Si sentì in colpa perché Thegga non sapeva che era decisa a scoprire chi fossero le persone che avevano ucciso i suoi genitori. Thegga non sapeva che lei era convinta che non si fosse trattato di un incidente. Thegga non sapeva che pensava a vendicarsi dal momento in cui era scappata nel bosco, anni prima. Thegga non sapeva che lei era una brutta persona, e non era normale. Thegga non la conosceva davvero, eppure era lì.
Si avvicinò alla donna, e nonostante tutte le sue resistenze l’abbracciò. Sentiva Darrli agitarsi nel pancione, e abbracciò piano anche lei, delicatamente, con il cuore.
“Grazie”, bisbigliò.

Quando Shluba tornò con le erbe che le mancavano, vide la sua amica, una donna buona, e quell’esserino sperduto e combattivo che si tirava dietro da due anni unite in un’unica figura.
“È davvero arrivata l’estate, raggio di sole”, sussurrò.

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Thakart Arthall

~ Sùryn ~

L’Erede della Piana dormiva nel suo letto. Era stata una giornata splendida, tutto sommato: aveva festeggiato con sua madre e il Maestro i suoi sei anni, c’era stata persino una torta di ottimo marzapane e frutta fresca.

La servitù gli aveva fatto gli auguri, con quegli sguardi strani che non aveva ancora capito come decifrare. Forse avevano paura di lui? Del resto, era il figlio del Protettore della Piana.

D’un tratto, un rumore lo svegliò. Sentì la guardia fuori dalla sua stanza borbottare e riconobbe la voce del Maestro, quindi si rilassò e si mise seduto.
Il Maestro veniva spesso a svegliarlo per raccontargli storie, e a Thakart piaceva. Avevano un patto, e cioè che lui non avrebbe mai dovuto dirlo a suo padre. Al Protettore della Piana non piacevano quel genere di cose, non per suo figlio.

Allungò il braccio per afferrare la tunica del giorno prima e mettersela addosso; nonostante fosse quasi estate, le notti erano ancora fredde. La sua stanza era parca di ornamenti, come tutta Arthall: suo padre non credeva nello sfarzo tipico della capitale Ethuil, e sua madre aveva “gusti decisamente sobri”, così sosteneva la sua vecchia balia. Le pareti erano bianche, ornate solo da qualche piccolo arazzo che rappresentava scene di campagna, scorci della Piana e delle sue terre.

La parte che Thakart preferiva, però, era il balconcino in marmo: da lì si arrampicava per fare il giro del palazzo, e dall’interno che dava sul giardino di Arthall passava alla facciata, che dominava la piazza di Maccah, la sua città. Ormai aveva perso il conto delle volte in cui l’avevano beccato a sgattaiolare fuori dalla finestra e arrampicarsi; ora non poteva nemmeno uscire sul balcone. Suo padre aveva fatto mettere delle sbarre alle finestre; ma a lui non importava, perché conosceva i muri di ogni singola finestra del palazzo. Non lo avrebbero tenuto lì dentro per sempre.

Sùryn?”
Il Maestro lo chiamava sempre così. Significava “figlio del Sole” in elfico, o qualcosa del genere. Il bambino saltò sul letto e sorrise.
“Sono pronto, sono pronto!”
L’uomo si avvicinò e lo sollevò di peso dal letto, mentre lui saltava sul materasso come un cavallo imbizzarrito.
“Shhh, Sùryn, fai piano”, gli sussurrò, adagiandolo sul pavimento coperto da tappeti.
Thakart mosse le dita nude sulla stoffa, quindi corse ad infilarsi gli stivali.
“Prendi una coperta, fa freddo.”

Seguì il Maestro attraverso i corridoi, sorvegliati dalle solite guardie.
“Non avete paura che uno di loro faccia rapporto a mio padre?”, bisbigliò avvicinandosi all’uomo.
“Sono fedeli a tua madre. Non preoccuparti.”
Il Maestro aveva almeno sessant’anni, pensò Thakart; aveva una corta barba grigia e capelli incolti dello stesso colore. Non sembrava badare troppo alle apparenze. Indossava sempre la stessa tunica marrone, sia in estate che in inverno. L’unica volta che lo aveva visto con indosso una pelliccia era stato qualche anno prima, quando una gelata aveva colpito tutta la Piana. Non era come gli altri saggi di Istir.

Giunsero presto nel giardino interno, un quadrato di erba, alberi e fiori che sua madre amava curare. Quella notte, lei non era lì: Thakart pensò che fosse stanca dall’incredibile festa che gli avevano organizzato. Il Maestro lo fece sedere sul muretto basso che delimitava uno dei salici del giardino. Le foglie fredde gli pizzicavano il collo, ma Thakart resistette all’impulso di giocarci. Il Maestro lo avrebbe sgridato, perché ogni forma di vita va rispettata, persino quei malinconici salici piangenti.

“Thakart, sai cosa erediterai un giorno?”, mormorò il vecchio.
“Io sarò il Protettore della Piana”, rispose pronto il bambino, “sarò il capo di Maccah, di tutti i territori e anche dell’Esercito del Sole!”.
Il Maestro si sedette accanto a lui con un gemito di fatica. Allungò una gamba e posò l’avambraccio sull’altra, osservandolo di sbieco.
“Lo sai, una volta gli Arthall non erano solo Protettori.”
Thakart lo guardò con tanto d’occhi: quella era una storia che decisamente suo padre non avrebbe voluto che lui sentisse. Ne aveva già parlato insieme al Maestro, ma finse di non ricordarsene. Gli piaceva ascoltarlo.
“E cosa eravamo?”
Il Maestro osservò il salice e fece un mezzo sorriso allo spicchio di luna che si rifletteva sulle foglie argentee.
“Eravate re”, rispose, “il nonno di tuo nonno era re, suo figlio lo era, e così via”.
“E poi cos’è successo?”
“L’Imperatrice fece un accordo con Rikhart Arthall, tuo nonno. Lui era molto giovane ed accettò, convinto di fare il meglio per il suo paese.”
“E non fu così?”
Il Maestro sembrò piegarsi sotto ad un grave peso. Si mise a sussurrare, e Thakart dovette avvicinarsi e quasi trattenere il respiro per poterlo ascoltare.
“Rikhart il Costruttore diede a quella che era ancora una Regina il potere dell’Esercito del Sole. Tuo padre fa lo stesso, e ora quella Regina si fa chiamare Imperatrice. Lo sai cos’è un Impero, Sùryn?”
Thakart si morse una guancia.
“Un Impero è come un regno, ma più grande”, rispose deciso.
Il Maestro annuì.
“Ma non è solo questo”, lo ammonì, “un Impero è un insieme di territori diversi. L’Imperatrice ha usato i nostri Soldati del Sole per impadronirsi con la forza delle terre del sud e dell’est, e sta facendo lo stesso con le terre del mare”.
“È per questo che odiamo i rimgae?”
Il Maestro si accigliò, e Thakart capì di aver usato la parola sbagliata.
“Non odiamo nessuno, Sùryn. È l’ignoranza che ci spinge a diffidare del prossimo, ricordalo sempre.”

Il bambino serrò le labbra e abbassò lo sguardo sull’erba fresca. Pensò a quanto gli aveva detto suo padre sugli uomini-pesce, a ciò che si diceva per le strade e al Campo Addestramenti dei soldati. Lì avrebbero deriso il Maestro per i suoi valori. Eppure, a lui piaceva. Cosa c’era di sbagliato? Perché suo padre non approvava?
“Hai di nuovo gli occhi del colore della notte”, notò il Maestro, “cosa ti turba?”.
“Maestro, mio padre è un uomo cattivo?”
Il vecchio si sistemò meglio sul muretto e sollevò una mano a sfiorare le foglie lucenti del salice, poi passò le dita sulla barba.
Tuo padre è un uomo buono a cui sono successe cose cattive, Sùryn”, rispose.
Thakart non capì fino in fondo, quindi bisbigliò ancora.
“Quindi è diventato cattivo?”
Il Maestro scosse il capo.
“No. Ma è diverso, da quando quella donna è venuta qui due anni fa.”
L’Imperatrice, immaginò Thakart. In effetti, da quando l’Imperatrice rhavan era arrivata in delegazione a Maccah, suo padre non lo considerava più come prima. Aveva smesso di parlargli se non per dargli qualche ordine, e aveva cominciato a farlo allenare seriamente con la spada e nel combattimento a cavallo. E tra i suoi genitori si era formato una specie di muro. Era solo un bambino, ma vedeva tutto quanto, anche se non capiva.

“È per questo che tu e la mamma non volete che sappia dei nostri incontri?”, questa volta la sua voce era più tesa di quella che dovrebbe avere un bambino. 
Il Maestro annuì. Rimasero in silenzio per un po’, poi Thakart rabbrividì nonostante la coperta.
“Vieni, Sùryn, comincia a fare troppo freddo per un vecchio e un bambino.”
Seguì il Maestro sotto ai portici e dentro ad uno dei corridoi.
“Il mondo che erediterai, Thakart, è complesso”, lo udì dire.
Il cuore inciampò: il Maestro non usava mai il suo nome. Doveva intendere qualcosa di importante, qualcosa di urgente. Ma non disse nulla.
“Io farò del mio meglio”, rispose allora l’Erede, una risposta che dava spesso anche a suo padre.
Il Maestro gli mise una mano sulla spalla, sorrise. Tutto tornò a posto.
“Sei un bravo bambino, Sùryn.
“Il tuo studente migliore?”, ribatté Thakart.
“Il mio studente migliore.”

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