Anteprima di “Eredi di Angisi – La Stella Purpurea”

Il vento accarezzava i fili d’erba facendoli muovere come onde del mare. Il Campo Addestramenti era deserto, ad eccezione di due uomini impegnati nella danza dell’aria. Uno, Mekhart, brandiva un lungo spadone bianco a due mani che minacciava di accecare solo osservandolo. L’altro combattente era Thakart, suo figlio. Il ragazzo, armato di una lunga spada a lama larga, si lanciò contro il padre con determinazione. La danza dei loro piedi intrecciati ruppe il moto ondoso dell’erba, mentre il cozzare dell’acciaio stridente risvegliò Sidhe dal suo torpore. Acquattata dietro un albero, il secchio di legno sottobraccio, sobbalzò: per un attimo era riuscita a perdersi nella lotta. Poi il rumore delle lame le aveva ricordato qualcosa che da anni cercava di dimenticare.


Cercò con lo sguardo la tranquillità del verde accarezzato dall’aria primaverile, ma trovò solo la danza delle gambe dei guerrieri. Nell’aria si udivano i fischi delle spade, che si rincorrevano fino a cozzare. Infine, come sempre, Mekhart ebbe la meglio sul figlio. Thakart ruzzolò a terra, interrompendo il rito della danza dell’aria. Un ultimo fischio, quello dello spadone del padre, guidò la lama fino alla gola del figlio. Gli astanti, radunati in cerchio intorno ai combattenti, si profusero in applausi e complimenti. Solo lei trattenne il fiato.

Thakart si rialzò sorridente, aiutato dal padre.
“Stai migliorando”, gli sussurrò l’uomo.
Sidhe poteva distinguere le parole sulle labbra dei due uomini, tanto che le parve udire le loro voci. Quella di Mekhart era graffiante e profonda, una voce da Comandante; Thakart aveva un timbro più avvolgente e calmo. Mekhart si deterse il sudore dalla fronte e dal capo calvo, inspirando tanto profondamente da gonfiare il petto. Nelle terre di Maccah e della Piana, dove Sidhe era cresciuta, i guerrieri usavano radersi ogni volta che uccidevano un nemico. La ragazza non ricordava un’epoca in cui Mekhart non avesse esibito il capo nudo. Il figlio invece aveva solo sedici anni, come lei. Portava una treccia lunga fino a metà schiena, ma presto sarebbe dovuto andare in battaglia e l’avrebbe dovuta tagliare. Era già un miracolo, dovuto ai lunghi anni di pace, che avesse potuto conservarla così a lungo.

Sidhe si strinse il secchio al petto e rimase nell’ombra degli alberi. I giovani di Maccah crescevano in fretta: appena raggiunta la maggiore età si sposavano ed entravano nell’esercito. I più fortunati s’inventavano un mestiere, o lo ereditavano dal padre, e restavano a casa con le mogli. Thakart, in quanto figlio dell’uomo più potente della città, non avrebbe avuto la possibilità di scegliere. Nonostante gli accordi di pace che vigevano tra il protettorato della Piana e l’Impero, le ribellioni in tutta Angisi erano sempre più diffuse. I soldati del Sole più giovani venivano spesso spediti in prima linea, a volte senza terminare il loro addestramento. Sidhe vide il ragazzo rivolgere uno stanco sorriso al padre e ai compagni intorno a sé, il viso segnato dalla fatica, i muscoli tesi dallo sforzo.


“Mai abbastanza, per il figlio del Protettore della Piana”, commentò sarcastico in direzione dell’uomo.
Mekhart finse di non sentire, e lo aiutò a rialzarsi. Per una frazione di secondo, gli occhi scuri di Thakart sorvolarono il Campo e incontrarono quelli verdi di Sidhe. La ragazza li abbassò e si nascose dietro il tronco dell’albero.
“Stupida ragazzina insolente!”
Una voce roca fece capolino alla sua sinistra.
“Quante volte dovrò ripeterti che alle donne non è permesso l’accesso al Campo? Qui entrano solo i guerrieri!”
Rig, il vecchio custode del Campo Addestramenti, le afferrò un braccio con decisione. Sidhe cercò di divincolarsi, mentre con la coda dell’occhio vide Thakart allontanarsi insieme al padre.
“Muoviti, torna al lavoro”, le intimò il vecchio, spingendola con le mani nodose.
Una volta Rig era stato un guerriero valoroso e aveva abbattuto molti nemici grazie alla danza dell’aria; ora lunghi capelli bianchi gli ricadevano sulle spalle dai lati della testa. Non aveva mai preso moglie, non voleva terre. Aveva solo chiesto di poter restare lì, al Campo, il luogo a cui la sua vita apparteneva. Gliel’aveva raccontato Thegga, la donna che l’aveva accolta e la faceva lavorare nel suo negozio di stoffe. Sidhe lanciò un ultimo sguardo agli uomini in fila che si esercitavano con spada e arco, gli scudi lucidi che splendevano al sole. Quindi, afferrò il secchio di legno e s’incamminò insofferente verso il paese.
“Se ti becco a ficcare ancora il naso”, la minacciò Rig mentre si allontanava, puntandole un dito contro, “lo dirò a Thegga. E lei non è buona come me!”

Sidhe affrettò il passo, raggiungendo il pozzo di acqua calda fuori dalle mura. Mentre recuperava il secchio colmo, si guardò intorno e sospirò. Poco più avanti, in un frastuono di cavalli, urla da mercato e stridore di ferri c’era la città di Maccah, la più grande della Piana di Angisi. Le mura si innalzavano scure sulla pianura, e carovane di viaggiatori entravano ed uscivano senza sosta dalla grande porta principale. Tutto intorno, per miglia e miglia, c’erano mulini, coltivazioni di riso e grano, alberi da frutta: le più vaste delle Terre Meridionali. Dietro di lei, il Campo Addestramenti dal quale era appena fuggita e il quartiere dell’esercito della Piana. I valorosi uomini che lì dimoravano e si allenavano erano tra i più arditi che alimentavano le fila dei Soldati del Sole, i guerrieri dell’Imperatrice rhavan, umana. L’Aquila Imperiale, così veniva chiamata. Infine, proprio davanti al grande pozzo, l’entrata sontuosa delle Terme di roccia.

L’edificio, interamente scavato nella pietra, si sviluppava quasi interamente sottoterra: piscine, terme e saune, oltre a vari trattamenti estetici, si trovavano proprio lì. Dalla pianura, le Terme di Maccah sembravano un piccolo castello, con corridoi e torrioni appuntiti di roccia grigia e marrone. Si diceva che una manciata di fango del fiume Urime, il nastro azzurro che dissetava tutta la regione, valesse più degli opali trovati dai gimil nelle Miniere di Sopra.


Sidhe recuperò il pesante secchio, quindi si diresse verso un’entrata secondaria dell’edificio sul lato ovest. Lasciò il secchio fuori dalla porta ed entrò, percorrendo i corridoi con fare sicuro. Tenne lo sguardo basso per paura che qualcuno della città la riconoscesse e la fermasse per farle delle domande, ma incrociò solo una delle ragazze che lavoravano alle terme. Correva da qualche parte con una pila di candele profumate, badando di non farne cadere nemmeno una. I potenti di tutte le Terre Meridionali venivano in quelle terme, alimentate dalla purissima acqua dell’Urime, per ogni genere di trattamento di bellezza. Millenni prima perfino Luthièn, la Regina degli elfi, si era recata lì dopo aver perso molti dei suoi cari durante la guerra della Grande Perdita contro i druidi. Ma gli elfi erano scomparsi ormai da decenni, e Sidhe non credeva a certe sciocchezze. Aveva qualcosa di più importante a cui pensare.

Inforcò una delle alte porte in granito alla sua sinistra, quindi si fermò davanti ad una tendina di bambù. La scostò leggermente e attese un cenno dall’interno della stanza. Qualcosa si mosse nell’oscurità, aprendo le imposte di una finestra e lasciando che il caldo sole del mezzogiorno invadesse l’aria pesante.
“Ah, sei tu.”
La voce squittente di Shluba era fastidiosa come Sidhe la ricordava. Doveva avere almeno un centinaio d’anni, eppure la voce della donna era rimasta quella di un’adolescente.
“È già passato un mese?”, le chiese con quel suo accento tagliente tipico delle terre bagnate dall’oceano ad est.
Sidhe andò verso di lei con un mezzo sorriso sulle labbra arrossate dal sole.
“Pensavo che qualcuno ti avesse uccisa. Non sei ancora morta?”, la stuzzicò Shluba, sbucando fuori dal retro del suo negozio.
“Non mi hanno ancora preso”, rispose ironica Sidhe.
Shluba rise di gusto, mostrando i suoi denti aguzzi. Apparteneva ai rimgae, il popolo del mare, che si diceva discendesse direttamente dalle sirene salvate dagli elfi dopo la Grande Perdita.

rimgae erano famosi ad Angisi per la loro bellezza, la conoscenza delle erbe e per la capacità di incantare qualsiasi essere umano. Avevano sottile pelle violacea, capelli verde smeraldo e occhi azzurri come il mare d’estate. Ma Shluba era diversa: sua madre si era innamorata di un umano, e lo aveva seguito nella Piana. Qui, senza il mondo sottomarino, la donna era come appassita ed infine era morta, lasciando Shluba insieme al padre. La vita non era stata clemente con lei: il suo aspetto, metà rimgae, metà umano, l’aveva allontanata da tutto e da tutti. Era più bassa di un comune umano, con capelli verdi, ispidi e corti. Aveva la pelle di un colore indistinto, e dei rimgae aveva conservato solo la conoscenza, trovando una modesta collocazione come commerciante di unguenti, erbe e veleni, che il suo popolo conosceva meglio di qualsiasi altro. Sidhe soppesò la sua figura bassa e tozza, immaginandosi al suo posto: non appartenere né ad un popolo, né ad un altro, non assomigliare né ad un’umana, né ad una rimgae. Essere additata dalla gente gretta di Maccah solo perché diversa. Era una sensazione che conosceva.
Anche io, del resto, sono una reietta, si disse.


La rimgae cominciò a radunare alcuni oggetti sul tavolo da lavoro: alghe, un mortaio, alcune boccette e una fiala di vetro.
“Allora, bambina, come vanno le cose giù a Maccah?”, le domandò, cominciando a triturare l’alga.
Un fetore disarmante si propagò nel negozio, ma Sidhe s’impose di ignorarlo. Guardò il soffitto, mentre gli occhi le pizzicavano.
“Thegga mi fa lavare più stoffa di quanta ne venda, come sempre.”
Shluba si fermò per legare gli ispidi capelli verdi, puntando poi un occhio azzurro su di lei. L’altro occhio era cieco e color del ghiaccio.
“La dolce Thegga sa che ogni tanto sgattaioli fino al Campo?”
Si tirò su le maniche fino ai gomiti, rivelando la pelle pallida e segnata in più punti da chiazze violacee e squamose per nulla piacevoli alla vista. Miscelò l’alga nel mortaio con un liquido melmoso, quindi aggiunse qualcosa di meno denso e più profumato.


“Shluba, io voglio imparare a battermi”, annunciò Sidhe con determinazione.
“Osservare i guerrieri al Campo è l’unico modo, per ora.”
Si tolse la lunga cappa grigia da lavoro, cercando sollievo dall’aria torbida del negozio. Shluba osservò la sua tunica modesta, composta da un paio di larghi pantaloni blu e una fascia bianca per contenere il seno: la Piana era torrida, in estate, ed ogni pezzo di stoffa in più era una tortura per la sua pelle.
“Ma che splendido tono di blu. Dimmi, chi ti ha venduto quella tinta?”, mormorò con un sorriso affilato.
Sidhe sorrise a sua volta, piegando la cappa grigia.
“Tu”, rispose.
Shluba annuì soddisfatta e riprese a mescolare il composto. Lentamente, nel mortaio, gli ingredienti si amalgamarono in un denso liquido nero.
“Che soddisfazione credi di trovare nella danza dell’aria?”, domandò, continuando a mescolare.
“Ne abbiamo parlato tante volte. Voglio andare via di qui”, rispose piccata Sidhe.
La rimgae sospirò, le rughe sul suo viso si addensarono.
“Bambina, la vita è come l’oceano: non ti consegna mai ciò che vuoi, ma troverai molti doni sulla sabbia, una volta che la tempesta sarà passata”, recitò con fare paternalistico.
Sidhe sbuffò, prendendo in considerazione l’ipotesi di risponderle. Ma Shluba mise le mani rovinate dal tempo intorno al mortaio, intonando una qualche forma di preghiera. Sidhe non aveva mai capito se quel gesto fosse una tradizione, una magia o altro; sapeva solo che doveva rimanere in silenzio. Se certe persone a Maccah avessero beccato la rimgae a recitare quei versi… Rabbrividì.


La magia non era proprio vietata, ma nel regno umano era malvista. Questo perché, cercava spesso di spiegare Sidhe a Thegga, i rhavan non la possedevano, e quindi odiavano chi la conosceva. Schiarendosi la voce, cercò di avvicinare la sua mente a quella della rimgae. Ogni tanto, con Darrli, ci riusciva. Non ne aveva mai parlato con nessuno, ovviamente, per timore che la spedissero ad Istir per farla studiare ai saggi della Cittadella. Ma con Shluba c’era sempre qualche resistenza. Vide che alla vecchia tremavano le mani, e rinunciò.


“Ecco qui”, bofonchiò una volta terminata la recitazione, “durerà ancora per un altro mese”.
La rimgae versò attenta il liquido nella fiala, quindi lo tappò con cura. Sidhe le allungò un soldo.
“Cara, come farai senza di me se te ne andrai?”, chiese con tono innocente Shluba, indicando i capelli della ragazza, “solo io sono capace di produrre una tinta abbastanza forte”.
Sidhe nascose la fiala tra le pieghe grigie della cappa, quindi fece l’occhiolino alla vecchia rimgae.
“In effetti, mi sono sempre chiesta quale fosse il tuo segreto”, ribatté.
“Oh, una vecchia ricetta di mia madre”, rispose la rimgae.
Poi le rivolse uno sguardo interrogativo, come a ricordarle che voleva una risposta. Sidhe inspirò e l’odore acre delle alghe le serrò la gola.
“Potresti venire con me”, disse.
Shluba divenne seria d’un tratto, ed abbassò lo sguardo. La vide scuotere la testa e impallidire, come se stesse avvertendo qualcosa che lei non vedeva. Sidhe le voltò le spalle, sperando di aver concluso la conversazione. Tuttavia, Shluba si allontanò velocemente dal tavolo.
Nella penombra, la udì sussurrare: “chi sei, che ti nascondi sotto le spoglie di una rhavan?”.
Rhavan, un mortale senza poteri, un essere umano.
Doveva aver forzato troppo la mano cercando di sondarle la mente, prima. Il cuore di Sidhe accelerò e le guance si fecero calde. La ragazza fece un respiro profondo e voltò piano la testa, senza guardarla.
“E tu, che ti nascondi sotto le spoglie di una rimgae?”
Non attese risposta e superò la porta d’ingresso col cuore in gola.

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