~ Casa ~

Correva a perdifiato nel bosco. Scappava da qualcosa di oscuro, malato e terribile, oppure era un qualcuno: non riusciva a distinguerlo. Si agitava, muoveva le gambe tozze e poi cominciava a incurvarsi fino ad invecchiare, finché l’oscurità non le fu addosso…

Shluba si svegliò madida di sudore. Si era agitata così tanto che aveva finito per tagliarsi le labbra coi denti appuntiti, di nuovo. Odiava il suo sangue rimgae, le chiazze violacee sulla pelle, i capelli verdi e ispidi, i denti appuntiti e le mani palmate. E odiava il suo sangue rhavan, umano, che la rendeva più brutta e vecchia di quanto non fosse. Un meticcio che nei tempi antichi avrebbero buttato giù da una rupe. Cercò di tirarsi su più volte, ma data la sua forma fisica e visto che aveva dormito per terra, in mezzo agli alberi, l’operazione fu più faticosa del previsto. Quando cercò di raddrizzarsi, la schiena ingobbita dagli anni protestò vivamente.

Recuperò le sue poche cose, scelse un ramo caduto come bastone provvisorio e s’incamminò verso le mura di Maccah. Quello era il terzo giorno che cercava lavoro in città, e quella era l’ottava città in cui aveva cercato lavoro negli ultimi due anni. Si era fermata qualche mese ad Aerlinn, la città del commercio dove tutti i meticci dal sangue misto trovano un posto da chiamare casa, ma non era andata. Troppa concorrenza, troppe domande. Alla capitale Ethuil non avrebbe mai osato mettere piede, figurarsi a Tharsis o nelle terre del mare. Quella non era casa sua, non più.
“Se non riesco qui, giuro su Nimue che mi trasferisco al nord, nelle foreste.”
I tauren erano troppo alti per notarla, di certo non l’avrebbero cacciata via. Si trattava pur sempre dei figli dei troll: chi erano loro per giudicare?

Era passato da poco il mezzogiorno, e lei stava andando di bottega in bottega ad offrirsi come erborista, che poi era l’unica cosa che sapeva fare. L’unica cosa utile che sua madre le avesse insegnato: tutto il resto erano storie, leggende e profezie assurde. Entrò con poca convinzione in una macelleria, e subito gli occhi di tutti furono su di lei. Lo immaginava, del resto Maccah era abituata solo ai rhavan, e non alle razze magiche. Nella Piana imperversavano ancora molta ignoranza e chiusura.
“Griff, vieni qui, presto”, la donna dietro al bancone si premurò di allontanare un piccolo bambino grassottello dalle grinfie della tremenda mezza rimgae.
Shluba sospirò: non sembrava andare meglio dei giorni precedenti.
“Che vuoi?”, fu un uomo alto e pieno di peli a rivolgersi a lei.
Il padre di Griff, immaginò. Non si fece intimidire dal grembiule sporco di sangue e dal coltellaccio che l’uomo aveva in mano, e fece due passi verso il bancone ripieno di carne.
“Buongiorno. Vorrei un polletto già spennato, e chiedere se conoscete qualcuno che potrebbe avere bisogno di un’erborista.”
Fece per tirare fuori i pochi soldi che possedeva, ma il tono del macellaio la scoraggiò.
“Intendi fermarti qui, nella nostra città?”
“Non credevo che fosse vietato trasferirsi”, rispose ironica. Rimise via i soldi.
“Per quelli come te c’è un solo posto, a Maccah”, ingiunse la donna, che stringeva a sé il piccolo Griff, “la Fanciulla di Ferro.
Il marito scoppiò in una brutta risata, e Shluba fece un passo indietro.
“Sì, un posto adatto a depravati e scherzi della natura come te”, asserì.
Shluba mostrò i denti a punta, e i due si irrigidirono. Il bambino si mise a piangere.
“Immagino dovrò recarmi lì, per mangiare. Grazie”, e se ne andò, prima che al macellaio venisse in mente di scagliarle un coltello tra le scapole.

Ci impiegò oltre un’ora per trovare quella schifosissima taverna, e quando finalmente se la trovò davanti, sembrava chiusa. Da fuori sentì l’odore del vino e del tabacco, forse anche di qualcosa arrosto. Lo stomaco prese a brontolarle. Posò la mano sul muro umido, e lentamente si lasciò cadere per terra. Sarebbe stata una senzatetto per tutta la vita, una mezza rimgae con tante conoscenze sulle erbe e le pozioni, ma nessuno a cui venderle. Era una fallita, era stanca, era vecchia. Era troppo vecchia.

“Va tutto bene?”
Una voce arrivò da in fondo al vicolo sporco. Quando Shluba sollevò lo sguardo, non credette al suo unico occhio. L’altro era cieco, e aveva smesso di contarci già da un po’. Una gimil, una vera gimil dei Colli Rossi stava camminando verso di lei. Era gigantesca, la pelle nera come la notte, i capelli una matassa di lana scura e…era bellissima.
“Io”, balbettò, mentre la sconosciuta avanzava verso di lei, “volevo solo pranzare”.
La donna fece un sorriso, e i suoi orecchini di pietre colorate tintinnarono.
“Se non ti importa di entrare in un posto dimenticato dagli dei, puoi mangiare alla mia locanda”, e indicò proprio la Fanciulla di Ferro.
Shluba fece un mezzo sorriso e si mise in piedi.
“I posti che gli dei hanno dimenticato sono i miei preferiti.”

Si chiamava Kokebi, ed era proprietaria della taverna da quando sua madre era morta parecchi anni prima. Shluba sapeva poco dei gimil: erano più grossi e alti di un umano, avevano la pelle spessa e scura per proteggersi dal sole ed erano capaci di una forza incredibile. Inoltre, la magia che ancora scorreva nelle loro vene – anche se non la praticavano – li manteneva giovani a lungo. Per questo non si stupì quando Kokebi le disse di avere circa sessant’anni.
“Tu, invece, devi essere su questa terra da molto più tempo di me”, aggiunse.
Riusciva ad avere un tono gentile anche quando le dava della vecchia. Shluba ingollò un altro cucchiaio di zuppa di piselli e si costrinse ad annuire.
“I rimgae vivono a lungo quanto voi gimil”, asserì, “di certo ho visto più cose di quante avrei voluto ricordarne, alla mia età”.
Kokebi sorrise, ma Shluba non era sicura che avesse davvero capito.
“Sai, anche io sono lontana dalle mie terre”, disse invece.
“I Colli Rossi?”, cercò di non fare una smorfia, ma non ci riuscì.
“Oh, non fare così! È una terra bellissima, quella delle Miniere di Sopra.”
Shluba fece spallucce: non c’era mai stata, quindi doveva basarsi solo sui racconti. E i racconti la descrivevano come una terra arida, rossa di ferro e altre pietre, battuta dal sole il più dei giorni e da tempeste devastanti di quando in quando.
“Perché non torni?”, le chiese.
Kokebi incurvò le spalle.
“Ci ho provato, quando mia madre è morta”, rispose, “a lei piaceva stare qui, e in realtà piace anche a me. Ma sentivo che mi mancava un pezzo delle mie origini”.
“Ti capisco”, mormorò la rimgae senza riflettere.
Però era vero: la capiva. E lei non sarebbe mai potuta tornare indietro, a Teti. Non l’avrebbero accolta bene, dopo che sua madre era scappata con un umano…
“Rimasi là qualche mese, ma non riuscii a adattarmi. Ero troppo umana per i gimil, ma sono anche troppo gimil per gli umani”, fece un sorriso triste.
“Capisco cosa vuoi dire. Lo stesso vale per me e la mia razza.”
Kokebi fece un’espressione buffa con le labbra scure, che la fece sorridere.

“E cosa ci fai qui a Maccah?”, chiese poi.
“Cerco lavoro e un alloggio”, rispose pronta la rimgae.
Kokebi la squadrò, ma senza arroganza o giudizio. Erano due estranee in una terra di estranei, e questo le rendeva simili, in qualche modo, compagne.
“Ti proporrei di lavorare qui, ma la paga è misera, il lavoro è troppo e io sono insopportabile”, rispose, facendola ridere.
“Ho fatto fuggire a gambe levate tutti i miei aiutanti, parola mia!”
Si mise una mano su un fianco, poi si sedette di fronte a lei. Shluba era talmente minuta, a causa del sangue misto e della vecchiaia, che a malapena arrivava al tavolo. Kokebi lo superava con addome, busto e spalle.
“Però…hai detto che sei brava con le erbe, giusto?”
Shluba annuì. “Ho studiato come erborista.”
“C’è questa vecchia bottega abbandonata, alle Terme”, ponderò Kokebi, “non è vicina alla città, e i corridoi termali sono forse troppo umidi per te, però…”.
“Sembra perfetta”, si affrettò a rispondere la rimgae.
Kokebi batté il palmo della mano sul tavolo, così forte che la zuppa di piselli finì fuori dal piatto.
“Allora è deciso”, trionfò, “più tardi ti accompagno a parlare con chi dirige la baracca: è un mio cliente fedele”.
Shluba sorrise, e sentì il sangue affluirle al viso.
“Grazie”, disse semplicemente, “farò del mio meglio per integrarmi”.
“Oh, non servirebbe”, Kokebi fece un gesto con la mano, come a dire che era tutto vano, “le persone di questa città hanno paura della loro stessa ombra. Ma vedrai, c’è bisogno di una come te, qui. I soldati si spaccano la schiena, le mogli vogliono mani più morbide e perfino ad Arthall c’è qualche raffreddore, di tanto in tanto!”.
Shluba rise di gusto, e per la prima volta dopo due anni di solitudine si sentì a casa.

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